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domenica 25 settembre 2011

Dai Soliloqui di un pazzo

Sbarrò nell'ombra i grigi occhi perduti:
l'alba coglieva con le dita bianche
le ultime stelle per i cieli muti.

Egli pensò che il cuor tremi alle soglie
dell'anima così, come le stelle
treman la notte, alle divine porte
fin che la pietosa alba le coglie.
«Hai visto tu passare le barelle,
o pazzo insonne, con le stelle morte?»

Chiarità di una lama, o tu che fendi
l'ombra maligna: io t'offro il mio cervello
oscuro e tristo per disegni orrendi.

Io non ho pace, l'anima è un pantano;
nell'anima stagnarono i ricordi,
subitamente; oh quante volte, pietre
vi hanno scagliato con secura mano!
Dopo, il silenzio per i tonfi sordi
sé avvolse in bende assai più gravi e tetre.

Un ragno tesse la sua tela folta
per il mio teschio e nella tela stanno,
morte stecchite, le idee d'una volta.

Mai più, mai più! su le terrene cose
l'occhio non sosta, l'occhio si dispera,
come un'ala ferita ai cieli tende.
Io voglio la tristezza delle rose
morte all'inizio della primavera
per farne una corona alle mie bende.

Il mio cortile con un po' di cielo,
con poche stelle, a me sembra uno strano
fiore: corolla azzurra e grigio stelo.

Il mio cortile è triste molto, come
il suono di una placida campana
sotto un cielo di nuvole e di pioggia.
Una bianca tristezza senza nome
veste i muri, e nell'alto, una lontana
luce, su li orli, un oro dolce sfoggia.

Tu che mi ascolti non aver pietà,
non lacrimare delle mie sventure
come quel Cristo nell'oscurità.

Ah, quel Cristo, lo vedi? egli moriva
così, come ora, desolatamente,
quando venni alla cella che mi chiude.
Avea negli occhi una gran fiamma viva,
la fronte dolce e pur sanguinolente
e piaghe orrende per le membra ignude.

Non morì mai, non morrà più: mi guarda
nel buio e trema quando il lume trema
come i fanciulli se la sera è tarda.

A poco a poco si dissangueranno
le sue ferite per la doglia atroce
infin che un tarlo, - quando? - lentamente
roda i chiodi terribili che sanno
l'ossa dell'uomo e il legno della croce
e spezzi invano quel suo cuore ardente.

Chi mi parla dell'anima? Un impuro
ladro, forse, o un abate incipriato?
L'anima è morta ed io ne son sicuro.

Come una fonte semplice e tranquilla
donò la gioia alle riarse gole
degli umani e non seppe, ahimè! tenere
per la sua sete giovane una stilla!
Morì così, come un ignoto sole
spento su le fiorite primavere.

Chi batte alla mia porta? sei tu, cara?
Vieni con l'alba alla mia cella triste?
L'inchiodi forse questa grigia bara?

Mi ricordo di te, sola; eri bionda,
esile come un sogno giovinetto,
pallida come un astro mattutino;
te sola, nell'oscurità profonda
del mio cuore, t'accorgi per diletto;
te sola, con il mio tetro destino.

Chi tenta l'ombra che stagnò nei trivi
in cui le donne come idee mal certe
più volte si volgean tentando i vivi?

Chi veste d'auree stole anche le immonde
case che il fango d'un amplesso cinge?
Chi l'oro ai figli della terra adduce?
Ah, sei tu, sole, che le più profonde
pupille ferme nell'eterna sfinge
avvivi, anima orgiaca della luce?!

Sergio Corazzini





mi chiedo da sempre molte cose,
non tutte hanno risposta,
qualche volta sono anche sereno, orgoglioso,
ogni tanto mi sento impazzire di gioia o dolore;
questo è vivere mi sento dire da tutti
così ho smesso con molti il confronto
e parlo poco e ascolto meno;
là, in un posto che sò, esiste il confine,
quella linea sottile che varcheremo un giorno
e ci ritroveremo insieme ancora,
davanti a noi, forse, le tante risposte...

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