Canto di un cittadino
Pietra del fondo, che vedeva disseccarsi i mari
e milioni di bianchi pesci con salti di tormento –
io, pover’uomo, vedo un formicaio di genti bianche e nude,
prive di libertà. E vedo il granchio che ne divora il corpo.
E stati cadere, nazioni rovinare,
fuggire i re e gli imperatori.
Poi, la potenza dei tiranni.
E adesso posso dire, in questa ora,
che esisto, sebbene tutto muoia,
che è meglio un cane vivo di un leone morto,
così come dice la Scrittura.
Io, pover’uomo, seduto su una fredda sedia, occhi serrati,
sospiro e penso a un cielo di stelle,
a spazi non-euclidei, a germinanti amebe,
e agli alti monticelli delle termiti.
Io camminando dormo, e dormendo son desto,
corro inseguito e poi vengo sommerso,
su piazze di città, sospese in un’aurora
intensa, sotto il frantume marmoreo di una porta in rovina
commercio vodka e oro.
Eppure mi capitò di esserci vicino, giungevo
al cuore del metallo, allo spirito della terra, dell’acqua,
del fuoco,
l’ignoto scopriva il volto, come si scopre
una notte tranquilla riflessa in un ruscello.
E mi salutavano specchi di giardini
fogliati di rame, che scompaiono quando li si afferra.
E vicino, qui oltre la finestra, una serra di mondi,
dove il maggiolino e il ragno sono pianeti,
e l’atomo vagante è un rilucente Saturno,
e i mietitori portano alle labbra
il freddo boccale nell’estate che brucia.
Questo volevo e null’altro. Da vecchio mettermi
come il vecchio Goethe di fronte alla terra
e riconoscerla, e conciliarla
con l’opera, elevata
come una rocca nel bosco sopra il fiume
delle luci mutevoli e delle ombre labili.
Questo volevo e null’altro. Allora
di chi è la colpa? Perché mi è stata tolta
la giovinezza e poi l’età matura, perché hanno drogato
i miei anni migliori di sgomento? Di chi,
di chi è la colpa, o Dio, di chi?
E posso solo pensare a un cielo di stelle,
agli alti monticelli delle termiti.
Varsavia 1943-1944
Czeslaw Milosz
traduzione di Valeria Rossella
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