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sabato 11 aprile 2020

In una lingua che no so più dire, di Stefano D'Arrigo

In una lingua che no so più dire
 
Nessuno più mi chiama in una lingua
che mia madre fa bionda, azzurra e sveva,
dal Nord al seguito di Federico,
o ai miei occhi nera e appassita in pugno
come oliva che è reliquia e ruga.


 O in una lingua dove avanza, oscilla
col suo passo di danza che si cuoce
al fuoco della gioventù per sfida,
sposata a forma d’anfora, a quartara.


 O in una lingua che alla pece affida
l’orma sua, l’inoltra a sera nell’estate,
in un basso alitare la decanta:
è movenza d’Aragona e Castiglia,
sillaba è cannadindia, stormire.


 O in una lingua che le pone in capo
una corona, un cercine di piume,
un nido di pensieri in cima in cima.


 O in quella lingua che la mormora
sul fiume ventilato di papiri,
su una foglia o sul palmo della mano.


 O in una lingua che risale in sonno
coi primi venti precoci d’Africa,
che nel suo cuore albeggia, in sabbia e sale,
nel verso tenebroso della quaglia.


 O in una lingua che non so più dire.
 
Stefano D'Arrigo
 
 forse non parliamo più la stessa lingua,
probabilmente questo clima ci sovrasta;
passano giorni uguali e contigui, siamo
perfetti in una prigione mentale continua...

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