L’abbandono
"Tu che intender mi puoi, leggi e perdona"
I
Intenderà, pensavo; oggi o dimani
intenderà: dietro il mio breve addio
la porta chiuderà con le sue mani.
Non staran certo eternamente assorte
l’anime nostre nel primo desio,
mute a vegliar di questo amor la morte.….
Forse la spingerà l’ombra che lenta
avanza, sotto i nostri occhi, sul suolo,
o la fontana che giú si lamenta,
o qualche mio sospir non ben represso,
o il batter tetro del mio vecchio oriuolo,
la memoria d’un favor concesso.
La porta chiuderà con le sue mani.
II
E le parlai cosi, piú d’una volta:
Meglio che tu mi lasci al mio destino.
Misera meco non ti voglio. Ascolta.
Solo io prosegua il mio triste cammino.
Innanzi agli occhi miei pose la sorte
una meta lontana e tutta avvolta
di nebbie sí, che insidia par di morte.
Tra i dubbî or tu del mio sentier malfido
certo venir non puoi: tu, cosí fina
e candida, lasciare il tuo bel nido…
Piangi? Ebben, piangi. Io non dirò: Cammina!
III
Pur tu mi segui ancora, ombra dolente.
L’oscura soglia dell’oblio varcare
dunque non vuoi con le memorie care,
e sempre e ovunque mi starai presente?
Se di te la memoria affligger tanto
mi deve, ah meglio è forse ch’io ritorni
teco a soffrir l’antica pena e i giorni
stanchi e il tuo chiuso inconsolabil pianto.
E non piú questo avido assedio muto
di un’ombra che mi spia, che tutto vede
entro di me pria ch’io lo senta e chiede
di perpetuo compianto al cor tributo.
IV
Se con mano tremante (e già la mano
al pensiero mi trema) alla tua porta
battessi e all’improvviso, aprendo piano,
tu mi vedessi innanzi a te nel vano
della soglia – stupita, incerta, smorta!
Odo del tuo stupore il grido: acuto,
breve. Degli occhi tuoi vedo lo sguardo
e il tremor delle labbra. Qual saluto
ti porgerei? Restar potessi muto!
e tu potessi intendere com’ardo…
Come immemore tu dell’abbandono
parlar dovresti, qual chi indulga. Intento
io rifarei l’amor seguendo il suono
della tua voce. Tacito al perdono
risponderebbe certo il pentimento.
No, non verrò. Nel pallido tuo seno
è pure un cuore come il mio che geme,
un cuor che brama di lagnarsi, pieno
di lagrime, d’angoscia, di veleno.
Verrei per tormentarci ancora insieme?
V
Quand’io tornai d’un altro amor già stanco
a lei che m’attendea presaga e sola,
muto dinnanzi le restai, ma franco
fu quel silenzio, piú d’ogni parola.
“Finalmente ritorni!” ella mi disse.
“Neppur m’hai dato annunzio del ritorno…”
E su me le pupille intense e fisse
tenea nell’ombra. Già moriva il giorno
Ah come intanto mi stringea la mano!
D’assedio m’opprimean tutti i suoi sensi
spiandomi. – “Non parli?” – E invano,
invano di parlar mi sforzavo. – “A che mai pensi?”
Ed io pensavo. Ancora non le ho detto
la parola che attende. È come morta
la mia man nella sua, morto nel petto
il mio cuore per lei. Non se n’è accorta?
Mi cinse a un tratto il collo, lievemente.
“Perché non m’ami piú, perché?” – mi chiese.
Ed alitarmi in volto la dolente
voce sentii. Non pianse ella: mi prese
la testa e su le labbra arse la mia
bocca si strinse a lungo, a lungo, forte…
Ah, niun può dir che cosa atroce sia
baciar chi brucia, con le labbra morte!
VI
Accendi il lume nella stanza triste;
alle finestre il ciel grigio s’oscura.
O con piacer la tua mestizia assiste
al morire del dí? Non hai paura?
Sei sola. L’ombra già t’avvolge densa.
Chi parla a te da un tempo ormai lontano?
lo t’ho ingannata e abbandonata… Pensa
forse a questo il tuo cuor? Tu piangi invano.
Nulla io dar ti potea, piú nulla; e un bene
fu per te certo il mio tardo abbandono.
Tienti come uno scampo a ree catene
questo dolor: concedi a me perdono.
Senti quanta tristezza è nel cor mio?
Vedi in che notte il mio spirito è avvolto?
Libera sei! Ch’hai tu perduto? Oblio
stendi su un sogno che sta ben sepolto.
Luigi Pirandello
Dal Marzocco, 18 giugno 1899, e da Noi e il mondo, 1°
gennaio 1914.
a nulla fecero argine allora le parole mie nei versi, andò,
come foglia leggera, fu vento
che ancora mi muove i capelli...