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domenica 6 marzo 2016

Aretusa, di Ovidio


Aretusa

Cerere madre, ora che la figlia
 vede serena, chiede a te, Aretusa,
 il perché della fuga, e come avvenne
 che diventassi fonte. Tutte insieme
 si fermano le onde, dalle quali
 emerge la Divina, con il capo
 grondante d’acqua: strizza con la mano
 la chioma smeraldina, quindi narra
 l’amore antico, in Elide, del fiume:
 "Fra le Ninfe che vivono in Acaia
 vissi Ninfa bravissima. Nessuna
 sceglieva i gioghi con maggiore cura
 o stendeva le reti con più arte.
 Mi dicevano bella, pur se forte,
 pure se non curavo la bellezza,
 né gioivo alle lodi del mio viso.
 Ciò di cui gode ogni altra, mi era, invece,
 motivo di rossore, ché il piacere
 mi sembrava delitto. Ritornavo
 dalla selva Stinfalide, già stanca.
 Fu d’estate, ricordo: la fatica
 raddoppiava il calore. Trovo un fiume
 che scorre silenzioso, senza gorghi,
 dall’acqua trasparente fino al letto,
 al punto che si possono contare,
 dall’alto, i sassolini ad uno ad uno.
 L’onda talmente calma sembrerebbe
 immobile alla vista. Nei declivi
 salici bianchi e pioppi, alimentati
 naturalmente, davano alle sponde
 l’ombra nata con loro in quelle rive.
 Mi accosto al fiume e bagno solamente
 la punta del mio piede, poi la gamba
 sino al polpaccio. Quindi, non contenta,
 mi slego la cintura, sciolgo i veli
 e li appendo ad un salice ricurvo.
 
 Mi immergo nuda. Mentre con le braccia
 agito l’acqua, guizzo in mille giri,
 mi tuffo e dopo emergo, all’improvviso
 sento dal fondo come un mormorio.
 Spaventata mi accosto dove l’orlo
 è abbastanza vicino: ‘Dove corri?’
grida dall’onda Alfeo; quindi più roco:
‘Dove corri, Aretusa?’ Senza veli
 fuggo, così com’ero, ché la veste
 si trova all’altra riva. Quello brucia,
 e m’insegue ostinato, ché gli sembro
 facile preda, nuda come sono.
Quanto più corro tanto più m’insegue,
 simile allo sparviero quando insegue
 le timide colombe, e le colombe
 fuggono con le piume trepidanti.
 Mi spinsi sino a Psofo, ad Orcomeno,
 sino a Cillene, al Menalo boscoso,
 nell’Elide e nel gelido Erimanto.
 Né mi raggiunse, ch’ero più veloce.
 Ma cedono le forze: troppo a lungo
 è durata la corsa. Quello invece
 resiste alla fatica. Tuttavia
 corro per le campagne e dove i boschi
 sono più fitti; corro tra le rupi
 e in mezzo ai sassi privi di sentieri.
 Il sole è alle mie spalle: vedo un’ombra
 che oltrepassa i miei piedi e che si allunga.
Stremata dalla fuga prego infine:
‘Aiutami, Diana; mi ha raggiunto!
 Sono la tua guerriera; già mi offristi
 di reggere con l’arco le tue frecce
 chiuse nella faretra’. La Divina
 ode, si impietosisce, poi raccoglie
 le nuvole dal cielo e le riversa
 a coprire il mio capo, mentre il fiume
 cerca e ricerca, invano, dove il luogo
 si copre di caligine; poi gira
 attorno a quella nube, e per due volte
 sfiora, senza saperlo, giusto il punto
 dove sono celata. E per due volte:
‘Aretusa!’ mi grida ‘O tu, Aretusa!’
Misera! Con qual animo sopporto
 tanta paura? Come l’agnellino
 che sente i lupi fremere affamati
 dietro il recinto? O come quella lepre
 che, acquattata tra i rovi, sente i cani
 fiutare ostili e, timida, non osa
 muovere un pelo? Quello non demorde
 e, non vedendo al suolo alcuna traccia
 di piede umano, guarda quella nube
 e riguarda quel luogo. Sento il corpo
 grondante di sudore: gocce azzurre
 scendono sul terreno, dove io vado;
 la chioma è tutta rorida: veloce,
 più veloce del dire e raccontare,
 mi cambio in acqua. Pure trasformata
 riconosce nell’onda la diletta
 e lascia il corpo umano, ritornando
 quel fiume ch’era prima, poi che vuole
 fondere le sue acque con le mie.
 Ma Delia infranse il suolo: trascinata
 per le oscure caverne, giunsi a Ortigia
 che ha il nome della Diva a me più cara.
Questa mi spinse in alto, a respirare
 l’aria del mondo". Sino a qui Aretusa.
 Cerere, la feconda, sotto il carro
 aggioga due serpenti e ne costringe
 la bocca con i freni; quindi vola
 tra cielo e terra, dirigendo il carro
 nella città Tritonia. Poi ne scende
 e lo affida a Trittòlemo: gli ingiunge
 di riversare sulla terra incolta
 parte delle sementi a lui affidate
 e parte invece spargere nel suolo
 da rivangare dopo lunga sosta.

Ovidio
Metamorfosi

 
 
tu fonte, io fiume,
ti unisci al mio scorrere lento,
come argentina cascata lambisci
io scorro tu cadi e insieme ci uniamo...

Gujil

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